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L'OTTAVO GIORNO
(LE HUITIEME JOUR)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 ottobre 1996
 
di Jaco Van Dormael, con Pascal Duquenne, Daniel Auteuil, Miou-Miou (Belgio, 1996)
 
Da una parte c'è Harry (Daniel Auteuil), yuppie di successo che insegna alle nuove leve bancarie come vendere al meglio, dimostrando di credere in sé stesso prima ancora che in ciò che si va raccontando, Dall'altra, Georges (Pascal Duquenne), giovane mongoloide che fugge dall'istituto nel quale era stato ricoverato. Ma, indovinate un po', chi dei due è il normale? Chi dei due (lo yuppie divorato dalle esigenze del lavoro, ormai abbandonato dalle moglie e dalle figliolette; l'handicappato in cerca disperata di affetto, che finirà per trovare l'unico amico nell'ormai sconsolato bancario) è il più infelice, il più solo, il più debole?

Esistono molti sistemi per non riuscire un film, per guastare un soggetto più o meno originale, mandare all'aria le sempre reclamate -ci mancherebbe- migliori intenzioni. Una sceneggiatura zoppicante, una scelta e una direzione d'attori esitante, uno sguardo registico inesistente e inappropriato. Autore di un'opera prima di probabilmente sopravvalutato consenso e Caméra d'Or a Cannes (TOTO LE HEROS), il belga Van Dormael riesce l'en-plein: quello che consiste nello sbagliare quasi tutto. Quando per "quasi" consideriamo la scelta, coraggiosa e valida di Georges: non solo un vero mongoloide (a differenza del celebre protagonista di RAIN MAN, un film al quale si pensa durante la proiezione), ma un vero, rispettabile attore. Oltre ogni forma di pietismo (si vedano le sequenze - le sole veramente toccanti ed autentiche del film- nel quale egli interpreta la frustrazione sessuale), di quella strumentalizzazione che invade, chissà se volutamente, comunque oscenamente ogni altro aspetto del film.

Dalla sceneggiatura, allora. Che in una situazione arcisfruttata viene a raccontarci non solo che non sono i soldi a farci felici: ma che il regno dei cieli (l'ottavo giorno del titolo; quello che non esiste, quello nel quale il Signore, dopo essersi riposato, si è ricordato dei mongoloidi) appartiene ai poveri di spirito. Che mette in parallelo, con un manicheismo che conosciamo da tempo, il prevedibilissimo incontro fra i due, l'amicizia che fatica a farsi strada ma che finirà per trionfare: salvo ricorrere - per cavarsi d'impiccio a mandare tutti a casa- alla liquidazione finale del povero ed ingombrante Georges, grazie ad un cinico suicidio alla cioccolata (tra le sue disgrazie, il poverino è pure allergico alla sua sola consolazione).

Quando le cose si mettono male in partenza, a soffrirne è immancabilmente l'aspetto più prezioso ma fragile di un film, lo sguardo registico. Non contento allora di accentuare il proprio stile di quelle caratteristiche che erano state prese per buone nel suo primo film (una iper-accentuazione degli elementi espressivi, dal colore alla musica, dalla decorazione all'illuminazione: una sorta di post-modernismo, al quale manca però l'humour ed il distacco della riflessione culturale, e cioè tutto...) Van Dormael ricorre a tutta una chincaglieria di trovate desolanti. Dalle più risapute (i fuochi d'artificio per riconquistare l'affetto famigliare, il luna park notturno per celebrare la festa liberatoria degli handicappati, la spiaggia ed il mare con tanto di canzonette) a quelle che il regista inventa di suo, e che gli scoppiano fra le mani clamorosamente. Una mamma dai capelli ovviamente grigi che appare in sovrapposizione ogni qualvolta - e cioè quasi sempre- le cose girano male per il suo Georges; una controfigura del cantante kitsch d'époque Luis Mariano che invade lo schermo ad ogni piè sospinto per regalare al nostro l'indispensabile pizzico di poesia; un tostapane che alle sette di mattina scandisce la sveglia delle alienanti giornate dello yuppie, con una trovata che risale perlomeno ai tempi dei fratelli Lumière.


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